Giovanni Boccaccio, Decamerone.
John William Waterhouse, Un racconto dal Decamerone, Lady Lever Art Gallery, Liverpool |
Sono queste alcune delle parole del noto scrittore fiorentino
con cui racconta ai suoi lettori l’arrivo della peste del 1348 a Firenze, una
delle città italiane più colpite dall’epidemia, che decimò la popolazione
lasciandone soltanto un terzo.
Come ci raccontano alcuni storici dell’epoca, tre furono i
segni premonitori, con cui la terribile epidemia si annunciò: il primo, come ci
dice il Villani, «nel detto anno 1340 all'uscita di marzo apparve in aria una
stella cometa in verso Le vante nel fine del segno di Vergine e cominciamento
della libra , i quali sono segni umani e mostrano i beni sopra i corpi uma ni
di grande distruzione e morte, come dire mo appresso; e durò la detta cometa
poco, ma assai ne seguiro di male significazioni so pra le genti, e
spezialmente sopra la nostra città di Firenze.» (Villani, Chronica,
Cap. CXIII, p. 232). Nel 1347 invece una fortissima grandinata distrusse buona
parte del raccolto che negli anni precedenti era stato piuttosto scarso,
provocando così un ulteriore peggioramento delle condizioni economiche e
soprattutto fisiche dell’intera popolazione. Mentre il terzo un cero.
Il batterio della peste |
L’epidemia iniziò ad aprile per
finire alla fine di settembre, provocando anche morti illustri: fra queste lo
storico Giovanni Villani, colto proprio mentre stava scrivendo e lasciando una
frase incompiuta; i fratelli Lorenzetti, senesi di nascita e celebri per alcune
opere pittoriche ancora oggi conservate soprattutto agli Uffizi, e Andrea
Pisano, a quel tempo capomastro dell’Opera di Santa Maria del Fiore per la
costruzione del Duomo e del Campanile di Giotto: l’architetto riuscì a
costruire soltanto il primo piano della struttura, per poi vedersi fermare i
lavori per l’epidemia arrivata in città e conseguentemente la sua morte.
«Morì, tra
nella città, contado e distretto di Firenze, d’ogni sesso e di catena
età de’ cinque i tre e più. E nel generale per tutto il mondo mancò la generazione
umana per somigliante numero e modo. Gli uomini si diedero alla più
sconcia e disonesta vita.» (Giovanni
e Matteo Villani, Cronica, 1348)
Fu l’intera città ad essere sconvolta, immobilizzata proprio
nel momento in cui cercava di ritornare al suo splendore dopo i declini
finanziari di alcuni importanti banchieri fiorentini, come i Mozzi, i Peruzzi
Bardi e Acciaioli, falliti per il prestito al re d’Inghilterra Edoardo III e
anche per la Guerra dei Cent’anni.
Importantissimo fu il lavoro dei volontari, in particolare
quelli della Misericordia, l’associazione nata per volere di Pietro Martire
cento anni prima, ma anche di molte altre simili: allora, come adesso, si
preoccupavano di portare i malati e anche di seppellire i morti con grande
pericolo di essere loro stessi infettati. Nel momento di maggiore contagio,
dato l’alto numero di vittime, si ricorse anche alle fosse comuni, dove i corpi
venivano buttati senza una logica e tra uno strato e l’altro diviso da un
piccolo strato di terreno.
Panico e caos padroneggiavano in città: molti stavano lontani
dai malati, mentre altri, presi forse dai sensi di colpa, aiutavano cercando di
curarli nei modi, purtroppo inutili, che avevano all’epoca, con il rischio di
infettarsi loro stessi. La medicina, all’epoca, basava le sue teorie su quella
di Galeno, che vedeva negli squilibri dei fluidi corporei la causa della
malattia: spesso il rimedio era il famosissimo salasso, che però produceva
ancora più danni, causando un indebolimento del malato che andava incontro a
morte certa.
Raffigurazione della peste sullo sfondo della Cattedrale di Santa Maria del Fiore |
Chi poteva, soprattutto i benestanti, lasciò la città per
andare in campagna, con il rischio di essere derubati dei loro averi incustoditi
e di vedersi anche prendere le stesse abitazioni.
L’epidemia terminò alla fine di settembre, con conseguenze
terribili, non solo per l’altissimo numero di vittime che fece, ma anche per le
condizioni economiche e sociali che ne derivarono: ci vollero moltissimi anni
prima che la città si riprendesse veramente da ciò che era successo. «Lasciamo stare che l’uno cittadino
l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti
insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto
spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che
l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e
spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non
credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di
visitare e di servire schifavano.» come ci racconta ancora Boccaccio.
Quello che era accaduto era qualcosa di mai visto e
sconosciuto, a cui era difficile poter trovare un vero e rimedio: fra agosto e
settembre il governo della città emanò una serie di decreti volti a limitare i
danni della peste ma Firenze ne uscì distrutta, con ampie zone spopolate, e una
cerchia muraria appena finita di costruire che inglobava moltissime terre
vuote. Dieci anni dopo la fine dell’epidemia fu istituito un organismo di
governo che si sarebbe dovuto occupare della malattia quando questa si sarebbe
ripresentata e che nel 1527 divenne permanente.
E in effetti un secolo dopo, nonostante le precauzioni prese,
la peste ricomparve in tutta Italia, Firenze compresa: è la pestilenza che ci
racconta Manzoni ne I Promessi Sposi e soprattutto ne La colonna infame, chiaro
riferimento ai malati untori, portatori della malattia. La situazione economica
e sociale in cui arrivò era come quella del 1300, difficile con carestie e
conseguenti crisi finanziarie e forse proprio per questo, questa volta, la
pestilenza colpì più le zone al nord, mentre quelle centrali, come Firenze, perse
“soltanto” il 10% della popolazione, passando da 70 mila abitanti a poco più di
63 mila.
I probabili malati dovevano uscire con un fazzoletto bianco attaccato ai vestiti per
farsi riconoscere e quindi dare la possibilità ai sani di stare loro lontani; e
di contro proliferarono i medici che consigliavano e soprattutto vendevano
rimedi per curarsi e guarire: fra i più comuni c’era quello di stare poco
all’aperto e di tenere sotto il proprio naso un rametto di erbe e fiori
selvatici e aromatici. Questa volta i malati venivano rinchiusi in lazzaretti
costruiti apposta e lasciati morire e dopo la morte i loro corpi venivano
bruciati.
Ferdinando II de' Medici (1610-1670) |
In questo frangente si distinse la figura di Ferdinando II
de’ Medici, figlio di Maria Maddalena d’Austria e Cosimo II. Rimasto orfano
abbastanza giovane, a soli 11 anni, il Granduca si mostrò attento e in prima
linea nel momento del bisogno, facendo costruire lazzaretti e ospedali per
isolare i malati, requisendo anche conventi e monasteri per trovare nuovi spazi
per creare una zona di quarantena per gli appestati. Tutto ciò però inimicò il
Papa che fece chiudere gli Uffici d’igiene che il Sovrano aveva aperto. Ciò
nonostante Ferdinando scese più volte in città dal Belvedere, dove risiedeva al
sicuro con la famiglia, per incoraggiare rifocillare e dare denaro a tutti
quelli che ne avevano bisogno finché la situazione non tornò alla normalità.
Nel 1898 venne ritrovata, nel cimitero dell’Ospedale di Santa
Maria Nova, una lapide, oggi al Museo di San Marco, dove c’era scritto che «In
questo cimitero sono seppelliti XX mila corpi e' quali morirono in questo luogo
di peste l'anno MCCCCLXXIX».
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