mercoledì 11 marzo 2020

La peste a Firenze

«Dico adunque che giá erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nell’egregia cittá di Firenze, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantitá di viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, inverso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. Ed in quella non valendo alcun senno né umano provvedimento, […]  E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi ed alle femine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela ed altre come uno uovo, ed alcuna piú ed alcuna meno, le quali li volgari nominavan «gavoccioli». E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il giá detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere ed a venire: ed appresso questo, si cominciò la qualitá della predetta infermitá a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce ed in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade ed a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato ed ancora era certissimo indizio di futura morte, e cosí erano queste a ciascuno a cui venivano. A cura delle quali infermitá né consiglio di medico né vertú di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: […]E piú avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare con gl’infermi dava a’ sani infermitá o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni e qualunque altra cosa da quegli infermi stata tócca o adoperata pareva seco quella cotale infermitá nel toccator trasportare.»
Giovanni Boccaccio, Decamerone.

John William Waterhouse, Un racconto dal Decamerone, Lady Lever Art Gallery, Liverpool


Sono queste alcune delle parole del noto scrittore fiorentino con cui racconta ai suoi lettori l’arrivo della peste del 1348 a Firenze, una delle città italiane più colpite dall’epidemia, che decimò la popolazione lasciandone soltanto un terzo.
Come ci raccontano alcuni storici dell’epoca, tre furono i segni premonitori, con cui la terribile epidemia si annunciò: il primo, come ci dice il Villani, «nel detto anno 1340 all'uscita di marzo apparve in aria una stella cometa in verso Le vante nel fine del segno di Vergine e cominciamento della libra , i quali sono segni umani e mostrano i beni sopra i corpi uma ni di grande distruzione e morte, come dire mo appresso; e durò la detta cometa poco, ma assai ne seguiro di male significazioni so pra le genti, e spezialmente sopra la nostra città di Firenze.» (Villani, Chronica, Cap. CXIII, p. 232). Nel 1347 invece una fortissima grandinata distrusse buona parte del raccolto che negli anni precedenti era stato piuttosto scarso, provocando così un ulteriore peggioramento delle condizioni economiche e soprattutto fisiche dell’intera popolazione. Mentre il terzo un cero.
Il batterio della peste

L’epidemia iniziò ad aprile per finire alla fine di settembre, provocando anche morti illustri: fra queste lo storico Giovanni Villani, colto proprio mentre stava scrivendo e lasciando una frase incompiuta; i fratelli Lorenzetti, senesi di nascita e celebri per alcune opere pittoriche ancora oggi conservate soprattutto agli Uffizi, e Andrea Pisano, a quel tempo capomastro dell’Opera di Santa Maria del Fiore per la costruzione del Duomo e del Campanile di Giotto: l’architetto riuscì a costruire soltanto il primo piano della struttura, per poi vedersi fermare i lavori per l’epidemia arrivata in città e conseguentemente la sua morte.
«Morì, tra nella città, contado e distretto di Firenze, d’ogni sesso e di catena età de’ cinque i tre e più. E nel generale per tutto il mondo mancò la generazione umana per somigliante numero e modo. Gli uomini si diedero alla più sconcia e disonesta vita.» (Giovanni e Matteo Villani, Cronica, 1348)
Fu l’intera città ad essere sconvolta, immobilizzata proprio nel momento in cui cercava di ritornare al suo splendore dopo i declini finanziari di alcuni importanti banchieri fiorentini, come i Mozzi, i Peruzzi Bardi e Acciaioli, falliti per il prestito al re d’Inghilterra Edoardo III e anche per la Guerra dei Cent’anni.
Importantissimo fu il lavoro dei volontari, in particolare quelli della Misericordia, l’associazione nata per volere di Pietro Martire cento anni prima, ma anche di molte altre simili: allora, come adesso, si preoccupavano di portare i malati e anche di seppellire i morti con grande pericolo di essere loro stessi infettati. Nel momento di maggiore contagio, dato l’alto numero di vittime, si ricorse anche alle fosse comuni, dove i corpi venivano buttati senza una logica e tra uno strato e l’altro diviso da un piccolo strato di terreno.
Panico e caos padroneggiavano in città: molti stavano lontani dai malati, mentre altri, presi forse dai sensi di colpa, aiutavano cercando di curarli nei modi, purtroppo inutili, che avevano all’epoca, con il rischio di infettarsi loro stessi. La medicina, all’epoca, basava le sue teorie su quella di Galeno, che vedeva negli squilibri dei fluidi corporei la causa della malattia: spesso il rimedio era il famosissimo salasso, che però produceva ancora più danni, causando un indebolimento del malato che andava incontro a morte certa.
Raffigurazione della peste sullo sfondo della Cattedrale di Santa Maria del Fiore
Chi poteva, soprattutto i benestanti, lasciò la città per andare in campagna, con il rischio di essere derubati dei loro averi incustoditi e di vedersi anche prendere le stesse abitazioni.
L’epidemia terminò alla fine di settembre, con conseguenze terribili, non solo per l’altissimo numero di vittime che fece, ma anche per le condizioni economiche e sociali che ne derivarono: ci vollero moltissimi anni prima che la città si riprendesse veramente da ciò che era successo. «Lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.» come ci racconta ancora Boccaccio.
Quello che era accaduto era qualcosa di mai visto e sconosciuto, a cui era difficile poter trovare un vero e rimedio: fra agosto e settembre il governo della città emanò una serie di decreti volti a limitare i danni della peste ma Firenze ne uscì distrutta, con ampie zone spopolate, e una cerchia muraria appena finita di costruire che inglobava moltissime terre vuote. Dieci anni dopo la fine dell’epidemia fu istituito un organismo di governo che si sarebbe dovuto occupare della malattia quando questa si sarebbe ripresentata e che nel 1527 divenne permanente.
E in effetti un secolo dopo, nonostante le precauzioni prese, la peste ricomparve in tutta Italia, Firenze compresa: è la pestilenza che ci racconta Manzoni ne I Promessi Sposi e soprattutto ne La colonna infame, chiaro riferimento ai malati untori, portatori della malattia. La situazione economica e sociale in cui arrivò era come quella del 1300, difficile con carestie e conseguenti crisi finanziarie e forse proprio per questo, questa volta, la pestilenza colpì più le zone al nord, mentre quelle centrali, come Firenze, perse “soltanto” il 10% della popolazione, passando da 70 mila abitanti a poco più di 63 mila.
I probabili malati dovevano uscire con un  fazzoletto bianco attaccato ai vestiti per farsi riconoscere e quindi dare la possibilità ai sani di stare loro lontani; e di contro proliferarono i medici che consigliavano e soprattutto vendevano rimedi per curarsi e guarire: fra i più comuni c’era quello di stare poco all’aperto e di tenere sotto il proprio naso un rametto di erbe e fiori selvatici e aromatici. Questa volta i malati venivano rinchiusi in lazzaretti costruiti apposta e lasciati morire e dopo la morte i loro corpi venivano bruciati.
Ferdinando II de' Medici (1610-1670)

In questo frangente si distinse la figura di Ferdinando II de’ Medici, figlio di Maria Maddalena d’Austria e Cosimo II. Rimasto orfano abbastanza giovane, a soli 11 anni, il Granduca si mostrò attento e in prima linea nel momento del bisogno, facendo costruire lazzaretti e ospedali per isolare i malati, requisendo anche conventi e monasteri per trovare nuovi spazi per creare una zona di quarantena per gli appestati. Tutto ciò però inimicò il Papa che fece chiudere gli Uffici d’igiene che il Sovrano aveva aperto. Ciò nonostante Ferdinando scese più volte in città dal Belvedere, dove risiedeva al sicuro con la famiglia, per incoraggiare rifocillare e dare denaro a tutti quelli che ne avevano bisogno finché la situazione non tornò alla normalità.
Nel 1898 venne ritrovata, nel cimitero dell’Ospedale di Santa Maria Nova, una lapide, oggi al Museo di San Marco, dove c’era scritto che «In questo cimitero sono seppelliti XX mila corpi e' quali morirono in questo luogo di peste l'anno MCCCCLXXIX».

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